dreamsyndicate_band2Etichetta: ANTI
Tracce: 8 – Durata: 47:38
Genere: Rock, Psichedelia
Sito: www.thedreamsyndicate.com 
Voto: 7/10

Come affrontare un disco nuovo di The Dream Syndicate a trent’anni dal precedente? Come riuscire a rendere credibile il seguito di un album (Ghost Stories) che alla sua uscita, nel 1988, fu accolto, per usare un eufemismo, tiepidamente? Beh, non ci sono molte risposte a queste domande. Il fatto è che How Did I Find Myself Here? è un buon disco, di quelli generalmente considerati “di conferma”, che magari passano inosservati quando sono parte di una regolare cronologia discografica ma che fanno la differenza quando invece rappresentano una sorpresa, come in questo caso.
Ciò che voglio dire è che se questo identico disco fosse uscito nel 1989 o nel 1990 (e sarebbe potuto accadere) al posto di quel disco dal vivo rilasciato per rispettare i termini contrattuali, probabilmente avrebbe ricevuto recensioni di circostanza, mediamente poco entusiastiche e livellate sulla tipologia “senza infama e senza lode”. Oggi, invece, complice un po’ di nostalgia e il sensazionalismo di vedere Steve Wynn rimettere in piedi la band con un così divertito trasporto, l’album sembra un piccolo miracolo.

In anni in cui il rock sta volgendo verso la consacrazione “di genere”, diventa inevitabile ricorrere ai suoi storici artefici per ottenere la qualità richiesta dai molti estimatori. Naturalmente c’è poco da discutere: The Dream Syndicate sono certamente ascrivibili al mondo dei grandi (r)innovatori della storia, fieri macchinatori nella grande stagione della new-psychedelia e del Paisley-Underground e capaci di influenzare una irripetibile scena musicale e, per questa ragione, accolti al ritorno sul palco di cinque anni fa con una serie di giustificati moti di entusiasmo, ravvivati all’inizio di settembre quando è giunto anche l’annuncio di un disco nuovo di zecca.
How Did I Find Myself Here? ha un grandissimo pregio: sprigiona un grintoso divertimento. Wynn oggi è un uomo maturo e conosce alla perfezione la complessità del linguaggio del rock, sa che certi slogan appaiono stranianti in bocca a chi si avvicina alla sessantina, e così ci mette quella dose di ironia che, assieme a talento e capacità è l’ingrediente fondamentale per rendere credibile una proposta di questo genere.
Le otto canzoni suonano dritte e potenti, la band le infarcisce di quegli stereotipi e di quelle ovvietà che il loro pubblico si aspetta ma riesce miracolosamente a tenersi a distanza dal triste “effetto nostalgia”.
Addizionano lo psych-rock di musica nera, ci mettono il jazz, l’R&B, svisano e accelerano e si preparano a inserire i nuovi pezzi nelle scalette dei concerti dove, sebbene a far eccitare il pubblico rimarranno principalmente i pezzi storici, sapranno fare la loro dignitosissima figura.
Bentornati.