Artista: Throbbing Gristle
Etichetta: Industrial Records
Anno: 1979
Denso di una incompresa carica ironica (i brani del disco non sono 20 e non hanno neanche la benché minima parentela con jazz e funk) il terzo album dei Throbbing Gristle è annoverabile tra le pietre miliari della musica pop del XX secolo oltre che caposaldo inestinguibile di tutta la sperimentazione intrapresa dalle band britanniche nei primi anni ’80.
20 Jazz Funk Greats suona ancora molto sperimentale per l’avanzata tecnologia che la band vi ha applicato nel tentativo di produrre qualcosa che fosse al di fuori di qualsiasi moda e tendenza, dimostrandosi così capace di travalicare qualsiasi incasellamento in formule, mode, atteggiamenti o ristrettezze.
Cosey Fanny Tutti, Chris Carter e i compianti Peter Christopherson e Genesis Breyer P-Orridge (al tempo ancora solo Genesis P-Orridge) ancor prima di abbracciare tematiche filosofiche sviluppate in seguito (e che portarono allo scioglimento del gruppo con conseguente attivazione da parte di P-Orridge e Christopherson dei Psychic TV), tentavano di abbinare le sonorità industriali con la musica elettronica, conferendo al sound della band un sapore di profonda intensità.
La strumentazione utilizzata è un insieme di strumenti acustici come la cornetta, il violino e il vibrafono, sintetizzatori e batteria elettroniche con interventi anomali e desueti di basso e chitarra.
La copertina, altro elemento disorientante, rappresenta una foto in cui la band posa presso la scogliera di Beachy Head, nel Sussex, tristemente nota in tutta la Gran Bretagna per essere stata teatro di un immenso numero di suicidi. L’autore del progetto grafico è probabilmente Christopherson che in quegli anni era uno dei più attivi grafici dello studio Hipgnosis (quelli delle famose cover dei Pink Floyd).
É stata Cosey Fanny Tutti, nel 2012, a svelare i motivi di questa scelta, con queste parole: “Abbiamo fatto una copertina che rimandasse a quei dischi che trovi nelle ceste delle offerte negli Autogrill. La foto l’abbiamo scattata nel luogo più famoso d’Inghilterra per i suicidi; l’immagine dunque non è affatto carina e rassicurante come può sembrare. Allo stesso modo non lo è la musica che vi è registrata: l’idea era proprio quella di disorientare immaginando qualcuno che, innocentemente, finisse per acquistare il disco attirato da copertina e titolo per poi, una volta giunto a casa e messo il disco sul piatto, finisse per incazzarsi, frantumandolo contro il muro.“.
Stanley Donwood, grafico storico di Thom Yorke e dei Radiohead l’ha definita la sua copertina preferita di tutti i tempi.
Nel 1981, la Fetish Records mise in commercio una ristampa dell’album a tiratura limitata con la l’immagine modificata: la stessa foto della versione originale era virata in bianco e nero e il corpo nudo di un uomo, apparentemente morto, era sdraiato ai piedi della band.
L’album, la cui produzione è accreditata a un misterioso duo Brooks & Sinclair (presumibilmente uno pseudonimo dietro al quale si nascondono P-Orridge e Christopherson), rimane tra i più importanti e deliberati tentativi di scuotere la strategia di marketing alla base dell’industria discografica, disorientando l’ascoltatore e ponendolo di fronte alla futilità delle classificazioni sterili dei generi musicali.
Un concept artistico che ancora oggi è una ferita aperta nel cuore della musica pop, dell’arte e della cultura sotterranea del XX secolo. Pezzi di musica assurda e oscenamente sfrontata che mescola, in un frastuono guizzante e preciso, le strategie principali con le quale, chiunque abbia voluto tentare di uscire dalle regole negli anni successivi, ha dovuto inevitabilmente fare i conti.