gibbons_lives_CDEtichetta: Domino
Tracce: 10 – Durata: 45:54
Genere: Post Folk, Cantautori
Sito: bethgibbons.net 
Voto: 8/10

Beth Gibbons s’è presa il suo tempo e, a sedici anni dall’ultimo capitolo coi suoi Portishead (Three) e a ventidue dalla prima esperienza extraconiugale con Paul Webb/Rustin Man (Out of Season), pubblica il suo esordio da solista.
Da dire c’è che, se l’attesa era il prezzo da pagare per un risultato come Lives Outgrown, lo abbiamo pagato volentieri.
Come si evince dal titolo, si tratta di un disco che si concentra proprio sul concetto di tempo, sul modo in cui il suo implacabile ticchettio influisce sulle nostre biografie, sulle scelte (fatte o non fatte) sugli anni che portiamo e sul concetto di vita, esistenza, ricordi, passato, presente e inevitabilmente… morte.
Seppure siano temi spesso affrontati da Gibbons, in questa circostanza assumono un aspetto ancora più maturo, sostenuto da chi, alla soglia dei sessant’anni, riesce a vedere le cose con il disincanto di chi ha smesso di affannarsi con la frenesia della scoperta.
Anche musicalmente, i dieci brani hanno un sapore pressoché biografico che tiene conto delle atmosfere dark di Geoff Barrow e Adrian Utley, di quelle post-folk di Paul Webb e perfino delle divagazioni contemporanee sperimentate con la Sinfonia n°3, dei canti lamentosi di Henryk Górecki finita in un album del 2019.
La produzione di Lives Outgrown è affidata a un James Ford (Arctic Monkeys, Depeche Mode, Pet Shop Boys) che sembra aver capito perfettamente le intenzioni dell’autrice, mettendo la sua capacità al servizio totale di qualcuno con le idee chiarissime.
Beth Gibbons riprende le fila con gli ex Talk Talk e dopo Webb chiama a corte il batterista Lee Harris che mette evidentemente bocca su molti arrangiamenti (oltre che la firma su quattro dei brani in scaletta). Il suono rivoluzionario dell’ultima fase della band di Mark Hollis, è qui talmente percepibile da immaginarlo come un vero e proprio omaggio.
Su tutto regna la compostezza interpretativa di Beth che marchia col fuoco della sua timbrica le divagazioni tribali di Rewind, le angosce profonde della sublime Burden of Life e le elucubrazioni esistenziali in salsa progressive di Whispering Love.
La cosa sorprendente di Lives Outgrown è la semplice linearità che, se da un lato lo connota in una sorta di statica monocromia, dall’altro lo impone su una lenta trama evolutiva in cui ci si adagia con estrema naturalezza.
Lasciando che i contenuti espressi si confondano nelle nebbie delle nostre personali trame esistenziali, le dieci tracce del disco si adagiano su melodie soffuse, sussurri viscerali, sottrazioni e limature che non fanno altro che evidenziare il talento singolare di un’autrice con pochi eguali che, attraverso un estro struggente e comunicativo, è sempre peculiare, unica e immensamente autentica.