Sabato scorso sono venuto in possesso di una copia in anteprima del primo (nuovo) disco di Thom Yorke, The Eraser.
A una penna brillante verrebbe facile confezionare un post colmo d’amaro sarcasmo e sfrenata licenziosità: basterebbe raccontare che cosa le orecchie hanno ascoltato e che cosa hanno continuato ad ascoltare per i tre giorni successivi, quelli necessari per farsi un’idea più chiara della musica racchiusa in questo CD. Ahimè non sono una penna brillante e rischierei di apparire solo snob. Quindi che fare? Non è facile scrivere cose costruttive parlando di un compositore per il quale si ha poca ammirazione. Si potrebbe tentare quando il materiale lo permettesse ma, in realtà, in questo disco c’è poco, pochissimo. Ovvero, cè molto, moltissimo ma assolutamente niente che lo riconduca al mio interesse. Thom Yorke è, per così dire, un musicista di modeste doti, sorretto dalle capacità del suo entourage produttivo e dal seguito dei fanatici della sua band di origine (quei Radiohead coi quali ha realizzato un eccellente spartiacque come The Bends) che l’hanno investito di un mandato messianico musical-poetico attraverso il quale appare maldestramente intellettuale pur tuttavia cercando di mantenere viva la sua immagine di artista colto, impegnato e  super-partes.

E difatti il contenuto artistico, a dir così, delle composizioni di questo suo primo disco solista è meramente sussidiario rispetto al messaggio extramusicale che l’opera, sorta di maldestra, noiosa e rudimentale scomposizione del suono, affatto fruibile, ha il compito di sostenere.
L’operazione, già tentata e fallita in epoca dei due album sperimentali “Kid-A” / ”Amnesiac” (Radiohead), rievoca momenti della musica contemporanea atonale abbinandoli alle leggi della musica pop con risultati poco inclini alla qualità.
Se da un lato sembra eccellente l’intenzione, dall’altro appare evidente lo sbrodolante sconquasso sonoro generato da questo rituale autocelebrativo. In “The Eraser” c’è, in aggiunta all’offesa all’orecchio, quella all’intelligenza: Yorke, fiutato il disappunto dei fans riguardo alcune sue dichiarazioni sulla musica del gruppo, organizza una trasmigrazione verso una carriera solista che gli permette  onanistiche divagazioni iperboree e schönberghiane senza dover per forza intaccare l’integrita da Top10 della band. Con buona pace di tutti, forse. Lo soccorre l’astuzia del George Martin del 2000, il produttore Nigel Godrich che restituisce al disco una parvenza di normalità.
Il pubblico, m’immagino, finirà per ascoltare questo disco nella maniera più scorretta, che è esattamente quello che ho fatto (e mi vanto di fare) io, ossia con le stesse modalità con le quali si affrontano i Kraftwerk o i Beatles. Il punto è che la condotta produttiva dell’autore ambisce all’educazione del sistema percettivo dei suoi fruitori fino a, con cervellotiche e invadenti dissonanze, ribaltarlo o riconvertirlo. L’intenzione di eliminare il divario che spesso esiste tra il linguaggio musicale e l’aggregazione dei suoni rischia di generare confusione e non distinguere le ispirazioni dalla condotta. Un preciso e più delineato percorso di ricerca sarebbe sufficiente a convalidare teorie sonore che, così, non hanno ragion d’essere.
La ricetta meramente tecnica dell’album prevede grande quantità di elettronica analogica (molto più “Amnesiac” che “Kid A”) a completo servizio di un percorso, interessante e curioso ma male sviluppato, dove spariscono gli accordi e si procede per note singole. Tastiere e campionatori prima ancora che chitarre e basso si dilatano in maniera accelerata, psichedelica e contorta in un mondo di intellettuale (auto)compiacimento dove non sembra esservi spazio per ironia o dissacrazione.
Non mancano alcuni spunti interessanti, primo tra tutti un sapiente uso della voce (talmente personale da essere poco malleabile) che ha il suo culmine nella coda di “The Clock”. E se “Skip Divided” saccheggia in maniera intelligente dalle incursioni avant-garde di Aphex Twin (o Laurie Anderson, fate voi), “Analyse” si sviluppa su una melodia (quasi)mediorientale che, per gentile concessione dell’autore, evita triadi di piccardia e ritmi dispari, risultando gradevole e orecchiabile.
In generale sembra di essere al cospetto di una serie di provini incompleti per un disco rifiutato dei Radiohead con pezzi di rara bruttezza (si ascolti l’incredibilmente tediosa “And it rained all night”) mescolati ad altri un po’ più riusciti. Ciò che manca è in gran parte l’inventiva, la curiosità e la generosità. Tutto è offerto come un fastidioso pastiche fatto di macchinette elettroniche a mostrare l’osso di un personaggio talmente impegnato a promuovere il suo egocentrismo da non accorgersi che noi, qui fuori, non siamo minimamente interessati.