Etichetta: Domino
Tracce: 9 – Durata: 45:41
Genere: Avant-Pop
Voto: 8/10

Loud City Song è il terzo album di Julia Holter, ventottenne di Los Angeles che si esprime con un linguaggio concertistico piuttosto interessante. Epperò si tratta del primo album che realizza con grandi mezzi come uno studio di registrazione professionale  al posto del suo home studio / PC e un considerevole dispiego di musicisti. L’utilizzo di strumentazione acustica “da camera”, abbinata a una certa sperimentazione elettroacustica, la rende piuttosto unica nel panorama della musica pop nonostante vengano facili gli abbinamenti con illustri predecessori come Laurie Anderson, Anja Garbarek, Philip Glass e Antony & The Johnsons. Le sue composizioni, semplici solo in apparenza, denotano una notevole dimestichezza con la materia musicale. Certo, nonostante Julia stessa dichiari di non conoscere la musica di quei giganti, deve essere in qualche modo arrivata alle sue orecchie, sia pure casualmente, dal momento che certe soluzioni richiamano piuttosto da vicino certa loro musica. La forza di Loud City Song consiste principalmente nell’ottenere una caratura popolare per un genere che solitamente viene relegato all’elite e non è escluso che al suo nuovo album finiscano per avvicinarsi anche i classici ascoltatori occasionali.
Il mondo evocato da queste nove canzoni è davvero denso di fascino. Riesce a stabilire un equilibrio credibile tra mondi così apparentemente lontani come quello delle hit parade e quello della sperimentazione. Come succedeva negli anni 80, Holter prova (e riesce) a colmare un divario apparentemente abissale ottenendo risultati davvero sorprendenti. Musica buona per uno spot dello yogurt che evolve in qualcosa di elegante e sfaccettato (Maxime I), brani che iniziano come un soffice Rap alla Neneh Cherry e si trasformano in composizioni avant jazz per chiudersi in un’atmosfera folk sperimentale (In the Green Wild). Momenti di ampio respiro sperimentale che si convertono in pezzi french-pop tra Serge Gainsbourg e Sylvie Vartan (This Is a True Heart). World, all’inizio dell’album, sembra ispirato dagli studi di Robert Wyatt e poi spiazza con innesti di orchestra, moderni e glaciali. Horns Surrounding Me ha il sapore di Couldbusting spolverata dai segni del tempo dell’originale di Kate Bush…  

Insomma, qualcosa di derivativo, ma fresco, che soddisfa parecchie tipologie di ascoltatori. Se solo Julia avesse saputo azzardare un po’ di più nell’uso della voce, un tantino svenevole e monocorde a parte qualche efficace cambio di registro (si ascolti, ad esempio la coppia Maxime I e Maxime II), avremmo avuto un capolavoro. Per ora abbiamo solo un ottimo disco. E va bene.